Giangiorgio Trissino, aus einem alten Geschlechte zu Vicenza, lebte vom J. 1478 bis 1550, meistens zu Rom und Venedig. Sein Heldengedicht, das von den Göthen befreite Italien, besteht aus sieben und dreissig Büchern, ́und Belisar ist der vornehmste Held desselben. Regelmäßigkeit hat es vor dem Gedichte des Dante vors aus; aber eine sehr ängstliche und frostige Regelmäßigkeit, aus übelverstandener, sklavischer Nachahmung der Alten; und an poetischem Werthe steht es jenem weit nach. An Handlung ist es ziemlich leer, desto voller aber von weits läuftiger, meistens ermüdender, Beschreibung. Dazu kommt die feltsamste Mischung des Wunderbaren, das zum Theil aus dem christlichen, zum Theil aus dem heiðnischen Religionssystem geschdpft, und worin beides oft in cins vers schmolzen, auch selbst noch mit Allegorie überfüllt ist. Uebris gens ift dies Gedicht in reimlosen Versen, oder verfi sciolti, und das erste große Gedicht in dieser Versart; aber Wohl, Klang und Anmuth vermisst man darin gar sehr.
MENTRE che i Capitani erano intenti Ad imbarcar quell' honorevol ftuolo, Il bel Giuftino andò verfo 'l palazo, Per vifitar Theodora Imperadrice, E tor da lei cominiato anz'il partire; Et havea feco amor, che quafi fempre Lji facea compagnia dovunque andava. Giunto dunque al palazo, e l'ampie scale Salendo, ritrovò, che la Regina Volea lavarfi, per andare a menfa; Com' ella il vide, con allegra fronte L'accolfe, e diffe a lui queste parole. Gentil nipote, voi farete a tempo Venuto qui, che cenerete nosco2
E quefta fera goderenvi alquanto, Poi, che fi tofta è la partenza vostra. Et ei rifpofe con parole accorte. Signora, i fon parato ad ubidirvi
In ogni dura imprefa, non che in quefta, Che fi ha da trappaffar con mio diletto. Hor, mentre quefto fi dicea fra loro, Se'n venne la belliffima Sophia Accompagnata da le fue donçelle; Ma come giunta fù fopra la porta De la camera fua, che fpunta in fala, Vide Giuftino, onde ritenne il paffo, E quafi ftette per tornarfi dentro; Pur venne fuori, e lj'ocki a terra fiffe, Sparfa nel volto d'un color di rose. Come fa il Pellegrin, che nel camino Vede un ferpente, e'l pie rivolge in dietro Tutto fmarrito, e poi trappaffa inanzi, Spinto da la vergogna, e dal difire D' arrivar tofto al fuo fedele albergo; Tal veramente fù il fembiante allhora Di quella vaga, e vergognofa Donna; Poi, fatta riverenza a la Regina, Subitamente fe n' andò da parte. Quando Amor vide lei, che tanto fchiva S'era condotta a l'honorata cena,
Diffe fra fe fdegnofamente. Adunque Coftei függe chi l' ama, e me difpregia? Poi, che non vide altr' amorofa fiamma, Che quella, che conofce una doncella, Vaga di fua beltà, s'altri la mira, Proviam di fottoporla al noftro Impero. E detto questo, eleffe una faetta
Ferma, et acuta, e l' addatò fu l'arco; Poi fi raccolfe dietro al bel Giuftino, E drizò lj'ocki in lei, tirando forte La dura corda, onde fofpinfe il ftrale Verfo il bel petto, e le percoffe il cuore; Ma come vide il colpo al fegno aggiunto, Partiffi, e fe n' andò ridendo al cielo. E fece come Arcier, che fta nascosto
Il qualche mackia, e vede di lontane Libera cervia andar pafcendo l'herbe, E l'arco tira, e le percuote il fianco; Poi lieto del bel colpo indi fi parte, Lafciando quivi lei ferita a morte. Quando la bella virginetta accolto Si vide il cuor da l'amorofo ftrale, Rivolle j'ocki lampeggianti al vifo Del bel Giuftino, e'l dilicato petto Di lei da nuovo amor tutto commoffo Levoffi, e mandò fuor qualche fofpiro; Poi tanto crebbe quella acerba piaga In poco fpazio, che le belle guance Si fer pallide, e fmorte; e poco ftando Divenner di color di fiamma viva. L'Imperadrice a la gia pofta mensa S'affife fopra una gran fedia d'oro E fece a lato a fe feder Giuftino, Nipote, e fucceffor del grande Impero; Da poi fedette Afteria, e poi Sophia, Che fur uniche filje di Sylvano, Fratel de la Regina: onde rimase. Erano heredi di riccheza immenfa. Qui fi portaron ottime vivande In vafi d'oro, e di mirabil' arte, Da cento leggiadriffime donçelle, Tutte veftite di damafco bianco, Col lembo açuro, e con la cinta d'oro; E cent' altre veftite pur di bianco, Come le prime, ftavano d' intorno La ricca menfa; e chi di lor poneva I piatti, e chi e levava, e chi trinzava, E chi porgeva preziosi vini
In coppe de finiffimi chriftalli.
Come poi la gran cena al fine aggiunse, L' Imperadrice con fuave afpetto Si volle al bel Giustino, e così diffe.. Io vi vedo Signor disposto a gire Con Belifario a la feroce guerra; Certo filjuol, che a noi pareva il meljo, Che voi reftat a cafa, e che l' imprefa S'haveffe ad efpedir per quei foldati,
Che fono experti, e che ci fon fuggetti, Senza voftro periljo e vostri affanni. Et elji a lei rifpofe in tal maniera. Veramente Regina hò molta cura Havuta, et haverò mentre, ch' io viva, Di non far cofa mai, che fi difcofti Punto dal voftro altiffimo volere; Che'l mio fommo diletto è d'ubidirvi. Ma fpier, fe penfarete al gran bifogno, Che habbia, chi è nato d' honorevol fangue, D' havere esperienza de le guerre, Che non farete al mio paffaggio adverfa. E pofcia i vado a la piu degna imprefa, Che foffe mai; fotto'l divin governo Del miljor Capitan, ch' al mondo fia. Tal, che s' io non andaffe a questa guerra, Quando harei più giamai tanta ventura? Si che non fia nojofa a voftra alteza La mia fervente, e virtuofa volja. Poi s'io ritorno vivo, forse anchora Sarò caro a qualchun, ch' or mi dispregia; E s'io morrò, non farò senza honore, Se ben fia lieto altrui de la mia mia morte. Queft' ultime parole furo intefe
Da la bella Sophia, come eran dette, E tutta quanta fi cangió nel volto, E racolfe nel petto un gran fofpiro; Ma per temenza pofcia lo ritenne. L' Imperadrice con parole dolci, Rifpofe al gentiliffimo Giuftino: Certo filjuolo, il voftro alto penfiero
Non vò fe non lodar, ben ch' ei m' aggravi, I te dunque felice, e vi ricordo, D'haver cuftodia de la voftra vita. Come hebbe udito quefto, il bel Giuftino Si levò ritto, et accoftoffi ad ella Humilemente, e col genockio in terra. Prefe licenza, e le bafcio la mano. Poi volto per partir, volfe anchor lj'ocki Verfo la fua belliffima Sophia,
La quale a cafo in lui volgea la vifta;
Onde fi rincontar le belle luci; Di che la giovinetta hebbe vergogna, Ei fuoi ritpinfe forridendo a terra. Poi mentre, ch' elji ando verfo la porta, Ella poftofi avanti il fuo ventaljo, Con la coda de l' ockio il rimirava; E la mente di lei, fi come in fogno Seguin le pofte de l'amate piante; Ma come ufcì di corte, ad un balcone Si traffe, e lo guardò fin che difparve. D'indi tornando al luogo, ove cenaro, Sempre fempre l' havea davanti a lj'ocki, Ramemorando ogni fuo minim' atto, Et ogni fuo coftume, e fempre havendo Dentr'a le oreckie il fuo parlar foave. E dicea fra fe fteffa; Il mondo mai Non hebbe, e non harrà cofa più rara. Sedendo poi nel loco, ov'elji a cena S'era feduto, e ciò, che havea toccato Toccar volendo per sfogare il cuore, Dava nuov' esca al' amorofa fiamma. Al fin partita quindi, e ritirata Ne la camera fua, non fi partiro I focofi penfier da la fua mente; Ma d'uno in altro fpeffo trapaffando, In cominciò temer, ch' ei non moriffe In quel periculofo afpro paffaggio; E ripenfando circa la fua morte, Lj'ocki s'empier di lacrime, e cadero Giu per le guance in fù l'eburneo petto; Poi dietro a l'onda d'un fufpiro amaro, Diffe fra fe medefma efte parole. O mifera Sophia, come fei colta Ne la rete d'amor fenza penfarvi; Hor fe n' andrà il belliffimo Giustino, Il quel t'amava, e t' honorava tanto; Ne tu giamai del fuo fervente amore Pietade havefti, e non volefti mai,
Non che ambafciata udir, ma darli un fguardo. O degno frutto a l' afpra tua dureza;
Hor ti conviene amar quel, che fuggisti;
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