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IV.

Quale nella rapita alma s'imprime Forza di melanconico diletto!

Com'è gentile a un tempo, ed è sublime Del gran teatro, ove ora son, l'aspetto ! Qui non s'ascolta, è ver, sospiri e rime Da non virile uscir musico petto,

È

ver, qui non s'ammira in pinta scena O danzar Ninfa, o gorgheggiar Sirena.

V.

Nè qui gran sale d'immortal lavoro Sorgon, dove le faci a mille a mille S'addoppian ne' cristalli, illustran l'oro, E l'aria tutta accendon di faville; Ed in giostra venire osan tra loro Tremule gemme, e cupide pupille : Regna lo scherzo, e il riso, ed ire, e paci, Care più, se più son l'ire vivaci,

VI.

Mirabile è ciò tutto; e di quel bene, Che dal Mondo gentil tanto s' apprezza, E di quelle, ch' ei dice utili pene, Me pur nell'età mia punse vaghezza. So i misteri d'un ballo, e delle cene La non vulgare ed erudita ebbrezza; So di quanta ventura è l'andar vinto Da due ciglia, due guance, e un cor dipinto.

VII.

Ma o ch'io vaneggi in questi giorni meno, O che or di follía saggia in preda io sia (Chè per necessità nell'uom terreno Forse s'annida ognor qualche follia ), Questo pian fosco, questo ciel sereno, La visibil di tanti astri armonia, D'ogni scena, o palagio, e di quel raro, Che mai l'arte offrir possa, è a me più caro.

VIII.

E parmi nuocer men quella che in loco Notturno, sì, ma liber' aura nasce,

Che la chiusa, di cui l'avido foco
Delle infinite fiaccole si pasce.

Perchè la danza, e dell'incerto gioco.
Duran così le ricercate ambasce,

Che ogni fiamma, al mancar dell' esca pura,
Languendo accuserà le infide mura.

IX.

Quindi ogni guancia al fin pallida e smunta, Più che per colpa del vegliar, del ballo : Nè val, se ad arte colorita ed unta Fu prima in faccia al consiglier cristallo, Che sotto il rosso ancor trapela e spunta Vittorioso il crudel bianco e il giallo, E, come stelle d'annebbiato cielo, Le infelici pupille appanna un velo.

X.

Deh splendan sempre a me le care stelle

In così puro ciel, come or le miro! Mentr'io su l'ali del pensiero a quelle M'ergo, che tragge ignota forza in giro, E nelle terre incognite e novelle, Audace pellegrino, entro e m' aggiro, Veggo abitanti, e sovra tutto impressa Con vario stil la Sapienza istessa.

XI.

E se, fermando l'instancabil passo, Per quel di Mondo in Mondo alto vïaggio, Dal freddo Urano estremo il guardo abbasso, La terra scorgo, e quest' uman legnaggio, Come oscuro il potente, il grande basso, Semplice il dotto, e mi par folle il saggio! Come vario, ma l'uom sempre vegg'io Sotto la scorza dell' Eroe, del Dio!

XII.

Ma quale dal vicin secreto bosco
Soavissimo canto si dischiuse?

Dolce usignuol, la voce tua conosco,
Che il suo nettare sempre in me diffuse.
Sempre io t'amai; tristo è il tuo genio e fosco,
E te compagno lor dicon le Muse:
Ebbi genio conforme io pure in sorte
Ed entrai giovinetto a quella corte.

XIII.

Pera chi al bosco tuo t'invola, e udirti Crede rinchiuso in carcere molesto! Cantor non compro tra gli allori e i mirti Udir ti dee; chè il tuo teatro è questo. Solo di terra, e ciel può convenirti Tacito aspetto, e dolcemente mesto, E libero varcar di ramo in ramo:

Schiavo, e avvilito alcun veder non amo.

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