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XIV.

O al lume tuo sereno

Sieda l'Estate, discoperta il seno,

O il Verno assiderato

Vada i tuoi rai cercando,

Alcun tepor bramato

Quasi trovar sognando,

Così tu mia sia destra, inno canoro

Batterà sino a te le penne d'oro.

XV.

E allor che infermo e stanco

Trarrò nelle giornate ultime il fianco,

Che al tuo silenzio opaco

Mi fia l'errar fatica,

Mi fia la selva, e il laco

Solo delizia antica,

Nel mio ritiro un de' tuoi rai discenda,

E sul bianco mio crin dolce risplenda.

ALLA SALUTE.

Figlia del Ciel, da quella

Gran mano uscita, allor che l' uom n'usciva,

Chi fia cotanto bella,

Che di beltà teco contenda, o Diva?

Sono le guance tue porpora viva,

Grande a mirar diletto,

Agile è il piè, sereno

L'occhio, e la fronte, e pieno

Di naturale orgoglio il colmo petto,
Ed aprirsi, e brillar suol nel tuo viso,
Qual fiore in prato, e in cielo stella, il riso.

In quella prima etade,

Non che mover preghiera, e templi alzarti, Cieco alla tua beltade

Nè rivolgeasi pur l'uomo a mirarti.

Ma poi che aperto il fatal vaso, e sparti
Fur su la terra i mali,

Di te com' ei s'accese !
Come a seguir ti prese!

Te giusta ira premea contro i mortali,
E d'allor cominciasti a far che scenda
Frequente sul tuo viso invida benda.

Sorsero poi superbe

Rocche e città; ma più, che l' alte mura,

Piace a te il campo, e l' erbe,

Piace l'intatta vergine natura.

Qui sovente ti fai, Dea sobria e pura,

All' arator dappresso

Tra Fatica, cui mille

Escon del petto stille,

E Pace, che ognor serba un volto istesso: Qui la gota a fanciul del tuo cinabro Colorir godi, o a villanella il labro.

Mentre in lucente gonna,

Ma con tremuli nervi, e cor non sano,

Ricca nobile donna

Dalla città ti chiama, e chiama invano.

D'arcane tazze a lei medica mano

Invan mesce conforto,

Invan fra tepid' acque

Nuda discese e giacque :

Disfiorata è la guancia, e l' occhio è morto,
Cui par non basti a ravvivar l' usata
Di mentir tuoi color polve rosata.

Ti chiamò Dea nemica

L'umana gente, e il labbro tuo rispose:Sai, che più destra e amica

M'ebber de' padri tuoi le dure spose

Sai, che raro io sedei sovra le rose
Del molle Sibarita :

Cinta di pelli intatte,

E un nappo in man di latte,

Più spesso sovra il carro errai del Scita." Mentre la madre il fanciullin tuffaxa,

Per le fredde del Tanai onde io notava.

Deh qua rivolgi il passo,

E la schiera fedel ti cinga il fianco,
Il buon Vigor, non lasso

Del vagar mai, del meditar mai stanco,

Quella, cui fosco di par sempre bianco, Ed è Letizia il nome,

E il Gioco, e il Riso, e terzo

Il moltiforme Scherzo,

Con Venere creduti, io non so come,

Poi che quei tre, chiedo alla Dea perdono, Se teco ella non è, con lei non sono.

Te fuggono le meste

Veglie, cui pioggia i sonni invan prepara, Te le Nause moleste,

Cui non è tazza che non sembri amara.

Vienne : il campestre loco, e questa avara Mia mensa, o Dea, ti chiama;

Nè alcun de' tuoi nemici

Hanno queste pendici,

Tema inquïeta, impaziente Brama,

Nè Amor, nè Gelosía, che in suo tormento

Spalanca cento lumi, e orecchie cento

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